mercoledì 14 febbraio 2018

Approcci di cosa? Perec

Quel che ci parla, mi pare, è sempre l’avvenimento, l’insolito, lo straordinario: articoli in prima pagina su cinque colonne, titoli a lettere cubitali. I treni cominciano a esistere solo quando deragliano, e più morti ci sono fra i viaggiatori, più i treni esistono; gli aerei hanno diritto di esistere solo quando sono dirottati; le macchine hanno come unico destino quello di schiantarsi contro i platani: cinquantadue week-end all’anno, cinquantadue bilanci: tanti sono i morti e tanto meglio per l’informazione se le cifre non fanno che aumentare! Dietro a un avvenimento ci deve essere uno scandalo, un’incrinatura, un pericolo, come se la vita dovesse rivelarsi soltanto attraverso lo spettacolare, come se l’esemplare, il significativo fosse sempre anormale: cataclismi naturali o sconvolgimenti storici, conflitti sociali, scandali politici…
Nella precipitazione che abbiamo nel misurare lo storico, il rivelatore, non dimentichiamo però l’essenziale: ciò che è davvero intollerabile, veramente inammissibile: lo scandalo non è il grisou, è il lavoro nelle miniere. Il “malcontento-sociale” non è “preoccupante” durante lo sciopero, è intollerabile ventiquattr’ore su ventiquattro, trecentossantacinque giorni all’anno.
I maremoti, le eruzioni vulcaniche, i grattacieli che crollano, gli incendi boschivi, le gallerie che sprofondano, Publicis che brucia e Aranda che vuota il sacco! Terribile! Mostruoso! Scandaloso! Ma dov’è lo scandalo? Il vero scandalo? Il giornale non ci ha detto altro che: state tranquilli, ecco la prova che la vita esiste, con i suoi alti e bassi, ecco la prova che qualcosa succede pur sempre.
I giornali parlano di tutto, tranne che del giornaliero. I giornali mi annoiano, non mi insegnano niente; quello che raccontano non mi riguarda, non mi interroga né tanto meno risponde alle domande che mi pongo o che vorrei porre.
Quello che succede veramente, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è? Quello che succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, il quotidiano, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in che modo descriverlo?
Interrogare l’abituale. Ma per l’appunto ci siamo abituati. Non lo interroghiamo, non ci interroga, non ci sembra costituire un problema, lo viviamo senza pensarci, come se non contenesse né domande né risposte, come se non trasportasse nessuna informazione. Non è neanche più un condizionamento, è l’anestesia. Dormiamo la nostra vita di un sonno senza sogni. Ma dov’è la nostra vita? Dov’è il nostro corpo? Dov’è il nostro spazio?
Come parlare di queste “cose comuni”, o meglio, come braccarle, come stanarle, come liberarle dalle scorie nelle quali restano invischiate; come dar loro un senso, una lingua: che possano finalmente parlare di quello che è, di quel che siamo.
Forse si tratta di fondare finalmente la nostra propria antropologia: quella che parlerà di noi, che andrà a cercare dentro di noi quello che abbiamo rubato così a lungo agli altri. Non più l’esotico, ma l’endotico.
Interrogare quello che ci sembra talmente evidente da averne dimenticata l’origine. Ritrovare qualcosa dello stupore che potevano provare Jules Verne o i suoi lettori di fronte a un apparecchio capace di riprodurre e trasportare i suoni. Perché è esistito, questo stupore, e con esso, migliaia di altri, che ci hanno plasmato.
Ciò che dobbiamo interrogare, sono i mattoni, il cemento, il vetro, le nostre maniere a tavola, i nostri utensili, i nostri strumenti, i nostri orari, i nostri ritmi. Interrogare ciò che sembra aver smesso per sempre di stupirci. Viviamo, certo, respiriamo, certo; camminiamo, apriamo porte, scendiamo scale, ci sediamo intorno a un tavolo per mangiare, ci corichiamo in un letto per dormire. Come? Dove? Quando? Perché?
Descrivete la vostra strada. Descrivetene un’altra. Fate il confronto.
Fate l’inventario delle vostre tasche, della vostra borsa. Interrogatevi sulla provenienza, l’uso e il divenire di ogni oggetto che ne estraete.
Esaminate i vostri cucchiaini.
Cosa c’è sotto la carta da parati?
Quanti gesti occorrono per comporre un numero telefonico? Perché?
Perché non si trovano le sigarette in drogheria? Perché no?
Poco m’importa che queste domande siano frammentarie, appena indicative di un metodo, al massimo di un progetto. Molto m’importa, invece, che sembrino triviali e futili: è precisamente questo che le rende altrettanto, se non addirittura più essenziali, di tante altre attraverso le quali abbiamo tentato invano di afferrare la nostra verità.

(Da Georges Perec, L’infra-ordinario, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 11-14, traduzione di Roberta Delbono. Immagine: Mathieu Bernard-Reymond, Intervalles, sans titre, n°17, 2001.)

giovedì 1 febbraio 2018

Professore? No, Maestro.

Bulgakov è antalgico.
Bellissimo ok. Ma andrebbe letto a 15 anni quando si è "scemi" ma si capisce tutto. Sto facendo la stessa fatica che ho fatto a leggere Siddarta a 40 anni.
Mi inquieta. Che non è mica detto che è una cosa brutta. È una cosa.
Felice tra poco che qualcuno alla nostra scuolina su Bulgakov mi avvicini al mistero di questo libro.
Il Maestro e Margherita, M. Bulgakov. BUR
P.s.
A proposito c'è un punto in cui arriva il Maestro, a metà quasi del libro. E uno dei 124 personaggi gli dice lei è professore?  No Maestro.
A Pavia in Università c'era un professore di filosofia medievale che era un genio puro. Feci anche un bell'esame. Forse il piu bello. Era anziano sembrava Sartre ma senza dolcevita, era sempre circondato da ragazze giovani e molto belle. Oggi si chiamerebbero fighe indie come dice la Tesio.
E lo accerchiavano e lo chiamavano Maestro, Maestro.
E la trovavo una cosa che mi faceva sorridere forse perche venivo dalla campagna. E c'era li intorno a quella parola, Maestro, il diavolo,  una certa tensione erotica. Chissà.
#ilmioannorusso #leggereirussicomegliharmony
P.s.2 scrivo sempre prima di piangere dall'osteopata. È antalgico.

Идиот.

Идиот. L'idiota. Dostoevskij.
Ohhh finalmente un libro dove fa freddo. Delitto e Castigo è ambientato in estate. 
Fa caldissimo anche se Fedor, l'amore mio, parlerà del tempo in 700 pagine tre volte credo. Giuro. 
È tutto un tempo mentale. Invece già alla pagina due dell'Idiota fa freddissimo e si parla di cappotti. 

Nei romanzi russi c'è sempre un cappotto prima poi.

Lumlina

Eccolo qui Paolo Nori. Un bel accento emiliano, un gran muovere di braccia e le punte delle sue dita che toccano la decorazione a stella che pende dal soffitto della libreria. Ho pensato adesso le strappa. Mi è piaciuto tanto il suo gesticolare e aprire continuamente le braccia e toccarsi il cuore come a dire dai state con me che la vediamo 'sta Russia.

Fuori il gelo, non russo ma quasi e noi al caldo neĺla libreria. Sembravamo in una palla di neve quelle che piacciono a me con la neve finta, noi dentro e fuori qualcuno che passava di fretta in via Lomellina e guardavano un signore che leggeva i racconti di un giovane medico. Russo.

Commossi tutti. E confusi da tanta bellezza. Anche perché il suo accento ha semplificato, avvicinato e reso tutto meno astruso e più vicino anche i nomi tanto che sembravano i racconti di un giovane medico della Lumlina cioè della Lomellina, come si dice in dialetto. #ilmioannorusso p.s. ha detto che ho fatto bene a cominciare con Bulgakov per il mio anno russo e che quando lo legge lui piange sempre.

Leggere i russi

Vorrei parlare infatti di quella esperienza violenta, malsana, indispensabile, unica, che dà il semplice gesto di «leggere i russi». L’ho scritto tra virgolette, perché leggere i russi non è mica una variante di tutti i mondi letterari, come leggere i ruteni, o magari gli italiani dell’Ottocento, eccettuato Manzoni, che, in questo momento, mi sembra un caso secolare di samizdat, di esule russo nel suo secolo.
«Leggere i russi» è un’esperienza che molti fanno nell’adolescenza, più o meno al tempo delle sigarette e dei primi, sani desideri di scappare di casa e andare a fare il mozzo. Di questi desideri i «russi» sono i più tenaci, e se poche sono le possibilità che ci si dedichi a correre lungo i moli in cerca di un brigantino, assai minori sono quelle di liberarsi di un Dostoevskij una volta che vi è entrato nel sangue. Ma non è solo lui; non esistono disintossicanti per Gogol, ed è molto più facile dimenticare il numero del telefono del primo amore, che la prima lettura della Sonata a Kreutzer di Tolstoj, o della Steppa di Cechov. Così accade che, periodicamente, nella vita, veniamo accolti da un attacco di «leggere i russi». Giorgio Mangelli

Approcci di cosa? Perec

Quel che ci parla, mi pare, è sempre l’avvenimento, l’insolito, lo straordinario: articoli in prima pagina su cinque colonne, titoli a lette...